IL REATO DI DIFFAMAZIONE A MEZZO STAMPA
Il reato di diffamazione è sancito dall’articolo 595 c.p., il quale prevede la punizione di tutte quelle comunicazioni che offendono l’altrui reputazione.
Proprio la reputazione, che possiamo definire come stima e rispetto convenzionalmente riconosciuto a una persona, è il bene giuridico tutelato dalla norma.
Il reato di diffamazione è un reato istantaneo, il che vuol dire che si realizza nel momento della comunicazione lesiva dell’altrui reputazione.
È previsto dalla legge che il soggetto di cui è lesa la reputazione debba essere determinato al punto che spetta soltanto a lui proporre la querela.
Per meglio comprendere in cosa consiste il reato di diffamazione basti pensare che la Cassazione ha reputato che scrivere “bastardo” su facebook riferito a un collaboratore o attribuire perversioni imbarazzanti a un professore integrasse gli estremi del suddetto reato.
Il nostro ordinamento prevede una particolare fattispecie di delitto di diffamazione e cioè il reato di diffamazione a mezzo stampa, previsto all’art 596 bis del c.p., il quale, per la verità, ha un contenuto piuttosto scarno. L’articolo in questione prevede solamente, per l’ambito della responsabilità in cui può incorrere un giornalista, l’estensione della responsabilità per diffamazione al direttore o vice-direttore responsabile, all’editore o allo stampatore nel caso di comprovato nesso di causalità tra omesso controllo e diffamazione.
Nel 2012 è intervenuta un’importante riforma sulla materia. L’innovazione più importante è la previsione di pena strettamente pecuniaria (e non più di reclusione) per il giornalista, oltre all’obbligo di rettifica anche senza commento. Questa modifica ha bilanciato il rapporto tra diritto di cronaca e reato di diffamazione, fino a quel momento piuttosto sbilanciato.
IL DIRITTO DI CRONACA: PROFILI GENERALI
Il diritto di cronaca trova fondamento nell’art. 21 della Carta Costituzionale, il quale sancisce la libertà di manifestare il pensiero, di cui la cronaca è un corollario. Questa consiste, infatti, nella narrazione dei fatti rivolta alla collettività, che trae dalla notizia un’utilità pubblica. La ratio del diritto di cronaca consiste proprio in questo: informare.
Per natura dell’informazione può capitare che alcune comunicazioni non siano sempre gradite per i più vari motivi. Per esempio può capitare che la notizia non sia vera e quindi si perda la caratteristica principale del diritto di cronaca ossia la pubblica utilità della divulgazione; oppure può succedere che venga lesa la riservatezza di un soggetto privato o, ancora, che la notizia venga diffusa con modalità poco formali.
Per tutelare la collettività la Corte di Cassazione, con la storica sentenza del 18 ottobre 1984 n. 5259, ha elaborato tre criteri affinché il diritto di cronaca non diventi un abuso e la collettività venga tutelata.
Li vediamo singolarmente:
1) CRITERIO DELLA RILEVANZA: la notizia deve possedere una intrinseca utilità sociale.
2) CRITERIO DELLA VERITA’: i fatti narrati devono corrispondere alla realtà. È possibile riportare un fatto soltanto putativo purché sia frutto di un diligente lavoro di ricerca da parte del giornalista, il quale tuttavia non ha l’obbligo di rivelare la sua fonte della notizia.
3) CRITERIO DI CONTINENZA: la notizia deve essere esposta correttamente e non devono essere usati toni che possono ledere l’altrui onore o immagine. La ratio di quest’ultimo criterio consiste nell’assicurarsi che la comunicazione resti coerente con lo scopo delle divulgazione e non ecceda in campi che siano più pertinenti rispetto alla pubblica utilità.
FOCUS SU UN CASO NOTORIO
Nell’aprile 2009 il critico d’arte Vittorio Sgarbi durante una trasmissione andata in onda sulla Rai ha fatto delle dichiarazioni nei riguardi del Pm di Potenza Henry John Woodcock che gli sono valse una denuncia per diffamazione.
Il giudice dell’udienza preliminare di Catanzaro (il giudice competente per i magistrati che prestano servizio a Potenza) ha rinviato a giudizio Sgarbi, accogliendo la richiesta della Procura della Repubblica di Catanzaro che ha reputato che le affermazioni del critico d’arte ledessero l’onore e la reputazione del magistrato.