IL REATO DI VIOLENZA SESSUALE, IN COSA CONSISTE?

Il reato di violenza sessuale è stato modificato ad opera della legge n. 66/1996: la precedente distinzione tra “violenza carnale” e “atti di libidine violenti” è stata unificata sotto la più generica fattispecie di reato di violenza sessuale, riportata all’art 609 bis c.p. Secondo l’odierna definizione, quindi, la violenza sessuale consiste nel delitto commesso da colui che, con violenza o minaccia o abuso della propria autorità, costringe la vittima a subire o compiere atti sessuali.

La violenza sessuale è punita con la reclusione da cinque a dieci anni.

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COME SI REALIZZA?

Affinché si configuri il reato in questione è necessaria, dal punto di vista soggettivo, la coscienza e la volontà di compiere atti invasivi della sfera sessuale altrui. Tale invasività è integrata da ogni costrizione a subire un atto sessuale, da intendere non (più) esclusivamente come congiunzione carnale, ma anche come atto di natura oggettivamente sessuale, nel senso che questi comportamenti dovranno essere valutati per la loro attitudine ad offendere la libertà sessuale della persona offesa.

Per far comprendere meglio al lettore cosa si intende per atto sessuale di natura non meramente carnale passibile di querela narro un episodio tratto dalla mia esperienza professionale.

Un mio cliente è stato accusato di violenza sessuale consumata perché si era fatto toccare il pene da un minore.

Ma approfondiamo bene il caso in questione.

Più nello specifico il mio cliente, a seguito di una frequentazione assidua, aveva iniziato a ricoprire nei confronti del ragazzo un ruolo genitoriale, a causa del quale si era sentito in dovere di aiutare il minore nel risolvere un problema che lo affliggeva: una malformazione genetica per cui non riusciva a scoprire il glande.

Tale problema aveva afflitto anche il mio assistito il quale aveva fatto osservare e toccare da vicino il proprio organo genitale in quanto esso presentava l’evidente segno di una cicatrice causata dall’intervento che avrebbe dovuto subire il minore.

Questa condotta è stata considerata una vera e propria violenza.

Aldilà degli aspetti etici e morali del caso si chiede al lettore di interessarsi solamente al fatto se la condotta in esame configura o meno il reato in parola.

Orbene, nell’episodio narrato non vi è l’elemento soggettivo, ossia l’intenzionalità, necessario per costruire la fattispecie del reato.

Indipendentemente dalle parti anatomiche interessate non vi è stata una dinamica intersoggettiva utile a “sorreggere” l’elemento materiale, in quanto non vi era la finalità di un soddisfacimento sessuale da parte dell’autore dell’azione (ossia il mio cliente).

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Avvocato penalista Milano Francesco D'andria

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