L’associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti è disciplinato dall’art.74 DPR 309/90 e si concretizza “quando tre o più persone si associano allo scopo di commettere più delitti tra quelli previsti dall’articolo 73, chi promuove, costituisce, dirige, organizza o finanzia l’associazione è punito per ciò solo con la reclusione non inferiore a venti anni”. La Cassazione penale sez. I con sentenza del 7 luglio 2011 n. 30463 stabiliva che per realizzare tale associazione a delinquere non era necessario un’organizzazione complessa ma era sufficiente l’esistenza di strutture elementari per la predisposizione dei mezzi al fine di perseguire il fine comune. Ovvero i Giudici Ermellini statuivano che “a base della figura dell’associazione finalizzata a traffici di sostanze stupefacenti è identificabile un accordo destinato a costituire una struttura permanente in cui i singoli associati divengono –
ciascuno nell’ambito dei compiti assunti o affidati – parti di un tutto finalizzato a commettere una serie indeterminata di delitti D.P.R. n.309 del 1990, ex art. 73, preordinati alla cessione o al traffico di droga. Per la configurazione del reato associativo non è necessaria la presenza di una complessa ed articolata organizzazione dotata di notevoli disponibilità economiche, ma è sufficiente l’esistenza di strutture, sia pure rudimentali deducibili dalla predisposizione di mezzi, anche semplici ed elementari, per il perseguimento del fine comune, in modo da concretare un supporto stabile e duraturo alle singole deliberazioni criminose, col contributo dei singoli associati (Sez. 1^, 22 dicembre 1997, n. 5083, rv. 204963; Sez. 6^, 12 maggio 1995, n. 9320, n. 742, rv. 202037; Sez. 1^, 31 maggio 1995, n. 742, rv. 202193; Sez. 6^, 9 gennaio 1995, n. 2772, rv. 201353)”. In questo articolo affronteremo la recentissima pronuncia della Corte di Cassazione – I sez. pen. – con sentenza n. 23901/13 depositata in cancelleria il 3.06.2013 sull’applicabilità della misura cautelare degli arresti domiciliari e, non della custodia in carcere, a un “narcos” recidivo.
Il caso riguardava un uomo già detenuto per altra causa prima in carcere e poi agli arresti domiciliari proseguiti come detenzione domiciliare dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna, fino all’attuale misura cautelare. Ebbene detta sentenza afferma che anche per il trafficante di sostanze stupefacenti, compromesso da intercettazioni telefoniche e ambientali, LE PORTE DEL CARCERE NON SI DOVEVANO APRIRE in quanto il Tribunale del Riesame non aveva adeguatamente motivato sulla necessità dell’applicazione della misura cautelare in carcere.
Infatti il giudice nel vaglio delle misure cautelari personali deve scegliere quella meno afflittiva: la misura della custodia cautelare in carcere, a detta del legislatore, è una cautela estrema che “può essere disposta soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata” ex art. 275 co. 3 c.p.p.
Dunque i giudici ermellini nella sentenza n. 23901/13 si sono uniformati al principio introdotto dalla Corte Costituzionale del “minore sacrificio necessario” nel senso che la libertà personale dell’individuo dev’essere ristretta entro i limiti indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari. Una volta venute meno tali esigenze, il giudice dovrà, necessariamente, predisporre misure alternative che incidono sulla libertà personale diversamente.
Di conseguenza i giudice della Corte di Cassazione hanno annullato il provvedimento del Tribunale del Riesame limitatamente alla mancata motivazione circa l’esistenza delle esigenze cautelari.

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Avvocato penalista Milano Francesco D'andria

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