L’associazione per delinquere è un’associazione, composta da almeno tre persone, che
persegue lo scopo di commettere delitti. Quando si tratta di delitti in materia di stupefacenti,
il reato diventa quello di associazione per delinquere finalizzata allo spaccio, e la pena
minima, da tre, diventa di dieci anni, venti per chi promuove, costituisce, dirige, organizza o
finanzia l’associazione.
Uno dei principali problemi della fattispecie consiste nella difficoltà dell’individuazione e
dell’accertamento, a livello processuale, delle condotte punibili.
È infatti necessario ai fini della punibilità, che un soggetto possa essere ritenuto, oltre ogni
ragionevole dubbio, membro dell’associazione, o, almeno, concorrente esterno nella stessa.
La Corte di Cassazione (Cass. Pen., sez. I, 7 luglio 2011, n. 30463), ha innanzitutto affermato
che, alla base del reato vi deve essere: “un accordo destinato a costituire una struttura permanente in cui i singoli associati divengono – ciascuno nell’ambito dei compiti assunti o affidati – parti di un tutto finalizzato a commettere una serie indeterminata di delitti D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 73, preordinati alla cessione o al traffico di droga”. Ancora, “per la configurazione del reato associativo non è necessaria la presenza di una complessa ed articolata organizzazione dotata di notevoli disponibilità economiche, ma è sufficiente l’esistenza di strutture, sia pure rudimentali deducibili dalla predisposizione di mezzi, anche semplici ed elementari, per il perseguimento del fine comune, in modo da concretare un supporto stabile e duraturo alle singole deliberazioni criminose, col contributo dei singoli associati.”
Per quanto concerne l’elemento soggettivo, la Suprema Corte (Cass. Pen., sez. VI, 23 gennaio 1997, n. 5970), ha precisato che “il dolo è dato dalla coscienza e volontà di partecipare attivamente alla realizzazione del programma delinquenziale in modo stabile e permanente” e che “il vincolo associativo può poggiare anche sul rapporto che accomuna, in maniera durevole, il fornitore di droga e gli spacciatori che la ricevono per immetterla nel consumo al minuto, sempre che vi sia la consapevolezza di operare nell’ambito di un unica associazione e di contribuire con i ripetuti apporti alla realizzazione del fine comune di trarre profitto dal commercio di droga”.
Particolarmente problematico, sotto il profilo probatorio, è il concorso esterno. Esso infatti ricorre, qualora si riesca a provare che taluno ha coscientemente, anche se solo occasionalmente, collaborato con l’associazione determinandone un rafforzamento.
Si pensi al caso di Tizio che ha importato e venduto una ragguardevole quantità di cocaina a Caio, membro di un’associazione per delinquere finalizzata allo spaccio. Tizio si è reso responsabile, sulla base della ricostruzione degli Inquirenti, di quell’unico episodio, pertanto, non si poteva affermare nei suoi confronti la responsabilità a titolo di partecipazione all’associazione. A tal fine sarebbe infatti stato necessario dimostrare l’esistenza di uno stabile e duraturo vincolo di affiliazione tra Tizio e l’associazione.
La condotta di Tizio è stata, invece, qualificata come una condotta di concorso esterno nell’associazione, in quanto il giudice ha ritenuto provata, oltre ogni ragionevole dubbio, la sua consapevolezza dell’efficienza causale del proprio contributo rispetto al conseguimento degli scopi dell’associazione.
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