L’AVVOCATO PENALISTA E IL REATO DI STUPEFACENTI
La prima disciplina degli stupefacenti
L’avvocato penalista e il reato di stupefacenti.
In presenza di un vivace dibattito politico-culturale sulla opportunità o meno di sanzionare il consumo di droghe, e secondo alcune impostazioni anche il traffico, lasciandolo al libero mercato (liberalizzazione) o al monopolio e al controllo dello Stato (legalizzazione) il nostro legislatore ha da sempre imboccato la via del proibizionismo, in linea con obblighi sovranazionali, rappresentati in particolare da diverse Convenzioni internazionali ( convenzione unica sugli stupefacenti adottata a New York nel 1961 ecc.) e dalla decisione quadro del 2004 n. 757/GAI.
La prima disciplina degli stupefacenti, risalente al 1923, incriminava la coltivazione, la produzione, e il traffico di sostanze stupefacenti, indicate in apposite tabelle, con pena della reclusione rispettivamente da 2 a 7 anni; il consumo non costituiva reato, salvo avvenisse con determinate modalità. Con il codice Rocco, si riprese tale impostazione ma per l’individuazione delle sostanze vietate si rinunciò al sistema tabellare, per passare alla definizione legislativa sintetica di “sostanze stupefacenti”, la cui concretizzazione era rimessa all’interpretazione del giudice. I primi commentatori ebbero cura di sottolineare come fossero da intendersi sostanze stupefacenti “le sostanze narcotiche le quali agiscono prevalentemente sul sistema nervoso […] e che tra queste non rientrassero i sonniferi né gli eccitanti del sistema nervoso, quali il caffè, il thè, il tabacco, i quali si rendono nocivi soltanto facendone abuso”.
Numerosi sono stati ancora gli interventi legislativi in materia, l’ultimo è il d.l. n. 272 del 2005, convertito in legge n. 49/2006 , dove si assiste ad un ulteriore inasprimento della disciplina, sia attraverso l’equiparazione delle c.d. droghe leggere alle c.d. droghe pesanti, sia attraverso la previsione, per il consumatore, di nuove e più afflittive sanzioni. Il discrimine tra trafficante e consumatore viene tracciato attraverso l’individuazione in apposita tabella, per diverse sostanze vietate, di quantitativi massimi detenibili per principio attivo, ottenuti moltiplicando la dose media drogante per un determinato fattore.
Come si può ben comprendere l’idea di fondo della disciplina vigente è quella di fare “terra bruciata” intorno al consumatore effettivo e potenziale, punendo con pene detentive esemplari chi materialmente realizza condotte strumentali al consumo o si associa stabilmente per commettere delitti di droga. Condotte quali la detenzione l’importazione, l’acquisto, ecc. finalizzate all’uso esclusivamente personale costituiscono illecito amministrativo (art. 75).
La nuova disciplina sugli stupefacenti
Il legislatore non ha fornito una definizione sintetica di “sostanza stupefacente” ma ha predisposto un elenco, aggiornabile con decreto ministeriale, nel quale ha inserito varie sostanze, sulla base di criteri eterogenei, relativi sia alla struttura chimica o alla specie botanica delle sostanze, vuoi ai lori effetti farmacologici, vuoi ai loro effetti sulla percezione o sul comportamento.
Per quanto concerne le condotte incriminate la norma, art. 73 del d.p.r. n. 309/1990, distingue:
- Quelle ritenute ex lege destinate a procurare il consumo altrui; quindi la coltivazione, produzione, fabbricazione, estrazione, commercio, trasporto, consegna ecc. di sostanze stupefacenti.
- Quelle ritenute penalmente rilevanti se destinate ad uso non esclusivamente personale della stessa.
Il discrimine tra detenzione ad uso personale e detenzione finalizzata allo spaccio, ovvero tra assuntore e spacciatore, costituisce da sempre l’aspetto più problematico della disciplina. Veniamo proprio come in merito a ciò il discrimine si è spostato dal dato oggettivo ( quantitativo di stupefacente) ad un dato soggettivo (finalità ad uso personale o meno). La giurisprudenza di merito ha elaborato una serie di indici sintomatici dello spaccio: frazionamento in dosi preconfezionate; presenza di bilancini o strumenti da taglio, consistente quantitativo di droga detenuta.
La nuova sentenza della Cassazione n. 40620 del 1ottobre 2013
A complicare la materia in esame è intervenuta recentissimamente la Cassazione con sentenza 40620 del 1ottobre 2013, che ha sostenuto in merito che è irrilevante che il principio della sostanza stupefacente non raggiunge la soglia drogante per configurare il reato di detenzione e traffico di droga, ma è essenziale la dimostrazione della probabilità di un evento lesivo per la salute attraverso la dimostrazione dell’efficacia. Quindi in base a tale sentenza in materia di stupefacenti, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 73 DPR 309/1990 è necessario dimostrare, con assoluta certezza, che il principio attivo contenuto nella dose destinata allo spaccio, o comunque oggetto di cessione sia di entità tale da poter produrre in concreto un effetto drogante. Dunque il principio attivo contenuto nella singola sostanza oggetto di spaccio può non superare la “soglia drogante”, in mancanza di ogni riferimento parametrico previsto per legge o per decreto, non ha rilevanza ai fini della punibilità del reato. Ne consegue che per i reati in materia di stupefacenti, che pongono in pericolo la salute deli assuntori, è essenziale la dimostrazione della probabilità di un evento lesivo, attraverso la dimostrazione dell’efficacia drogante della sostanza.
Quindi dopo questa sentenza della Cassazione per dimostrare che la sostanza stupefacente sia idonea a produrre un effetto drogante, non è necessario il raggiungimento della soglia drogante per la configurazione della fattispecie criminosa di detenzione a fini di spaccio: il reato di cessione di sostanze stupefacenti sussiste anche in relazione a dosi inferiori a quella media indicata nelle tabelle ministeriali dell’11aprile 2006, con esclusione soltanto di quelle condotte afferenti a quantitativi di stupefacenti talmente tenui da non poter indurre, neppure in maniera trascurabile, la modificazione dell’assetto neuropsichico dell’utilizzatore.
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