L’art. 643 c.p. afferma che “Chiunque, per procurare a sé o ad altri un profitto, abusando dei bisogni, delle passioni o della inesperienza di una persona minore, ovvero abusando dello stato d’infermità o deficienza psichica di una persona, anche se non interdetta o inabilitata, la induce a compiere un atto, che importi qualsiasi effetto giuridico per lei o per altri dannoso, è punito con la reclusione da due a sei anni e con la multa da euro 206 a euro 2.065”. Prendendo spunto dalla lettera della norma analizziamone a fondo i contenuti.
Innanzitutto la condotta descritta deve essere tenuta nei confronti di un minorenne, di un infermo o di un
deficiente psichico, un soggetto passivo, dunque, caratterizzato da una condizione di minorata difesa psicologica,
da abilità cognitive inferiori a quelle di una persona adulta normodotata.
Dalla collocazione sistematica della norma (Titolo XIII: “Dei delitti contro il patrimonio”) si desume che il bene
giuridico tutelato è il patrimonio del minorato. È dunque necessario provare che quest’ultimo ha effettivamente
subito un danno patrimoniale.
Ma non basta.
Elementi costitutivi del reato sono anche l’induzione e l’abuso, o meglio, l’induzione mediante abuso.
È infatti necessario, affinchè il reato sia integrato, che l’attore, abusando di bisogni, passioni o inesperienza del VOLERE minore, o dell’infermità o deficienza della vittima, approfittandosi quindi della sua vulnerabilità, l’abbia indotta a
compiere un atto patrimoniale autolesivo.
Per induzione si intende in particolare l’attività di suggestione, pressione, incitamento con cui l’agente influenza o
determina la volontà del soggetto passivo.
Per quanto riguarda le nozioni di infermità e deficienza psichica cui fa riferimento il testo di legge, con la prima si
intende uno stato morboso o patologico rilevato e definito come tale dalla comunità medica.
La seconda, invece, è stata inquadrata dalla giurisprudenza come “stato comprensivo di qualsiasi minorazione,
anche temporanea, della sfera intellettiva, volitiva o affettiva, del soggetto passivo” che può quindi “derivare dalla fragilità del carattere, dalla vecchiezza, e in genere, da ogni altra analoga situazione che si presti agli abusi, indipendentemente da uno specifico quadro morboso clinicamente identificabile secondo le comuni classificazioni neurologiche o psichiatriche” (Cass. Pen., Sez. V, sentenza 14 dicembre 1977, n. 6782).
È infatti la norma stessa a specificare che la minorazione psichica della vittima non deve necessariamente avere quella caratteristica di abitualità che è necessaria ai fini dell’interdizione e dell’inabilitazione, ma va sempre accertata con specifico riferimento al momento della commissione del fatto.
La Cassazione, nell’interpretare il dettato normativo, ha ribadito, infatti, che “non occorre una vera e propria malattia mentale”, occorre “un’effettiva e notevole menomazione delle facoltà intellettive e volitive, tale da rendere possibile la suggestione del minorato da parte di altri” (Cass. Pen., Sez. IV, sentenza 30 novembre 1994, n. 299). E ancora ha sottolineato la necessità di “accertare di volta in volta le facoltà mentali del soggetto, non necessariamente tramite perizia psichiatrica, dal momento che non è richiesta la piena infermità” (Cass. Pen., Sez. V, sentenza 27 ottobre 1978, n. 2237).
L’avvocato Francesco D’Andria ha spesso difeso con successo e dato ristoro a vittime di pressioni e inganni, che, in momenti di particolare fragilità, erano state indotte a compiere atti patrimoniali a loro discapito.