Il reato di “maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli” di cui all’articolo 572 c.p., viene integrato da chi “maltratta una persona della famiglia, o un minore degli anni quattordici, o una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte”. La norma, ha precisato la Cassazione, è da interpretarsi estensivamente. Anzitutto, nel novero dei famigliari, ha precisato la Suprema Corte, va ricompreso anche il convivente more uxorio (Cass. Pen., Sez. II, sentenza 22 ottobre 2009, n. 40727). Nella stessa pronuncia il Giudice di legittimità ha preso atto di altri soggetti ancora cui la giurisprudenza ha ritenuto di applicare l’art 572 c.p., quali la concubina, il nipote convivente e i domestici.

Come si evince dal testo di legge, la norma incriminatrice, sebbene sia stata inserita nel titolo XI che riguarda i delitti contro la famiglia, e in particolare nella sezione relativa ai delitti contro l’assistenza familiare, offre protezione giuridico-penale anche a soggetti deboli, vale a dire facilmente aggredibili, esterni al nucleo familiare. La fattispecie si presta, infatti, a ricomprendere maltrattamenti realizzati in ambito scolastico, lavorativo, o, ancora negli istituti che hanno finalità di custodia e cura, come ospedali e altre

strutture sanitarie.
Il legislatore non fa espresso riferimento alle modalità della condotta penalmente rilevante. Pertanto il reato può essere commesso non solo per mezzo di violenze fisiche, ma anche attraverso ingiurie, vessazioni e umiliazioni verbali. Tuttavia, occorre precisare che si tratta di un reato abituale, che quindi ricorrerà solo qualora la condotta aggressiva si ripeta nel tempo e non costituisca invece un episodio isolato.
La pena prevista per il maltrattatore è la reclusione da uno a cinque anni. Se tuttavia dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a otto anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a venti anni.
Ai nobili intenti del legislatore di tutelare le vittime deboli nei contesti in cui sono più a rischio, si contrappone, tuttavia, un’ineludibile realtà con cui fare i conti: la massiccia mole del sommerso. Ricerche basate su dati non ufficiali, come quelli raccolti dalle associazioni assistenziali private o emersi dalle inchieste di vittimizzazione, consentono di ipotizzare ragionevolmente che una percentuale molto elevata dei maltrattamenti ex art. 572 c.p. non venga denunciata.
I meno denunciati sono proprio i maltrattamenti che si consumano all’interno delle mura domestiche.

I motivi della mancata denuncia sono svariati, primi tra tutti: il timore di ritorsioni, la vergogna e un malinteso senso di protezione che la famiglia, nonostante le dinamiche vittimizzanti che possono svilupparsi al suo interno, spesso non cessa di trasmettere ai suoi membri.

A ciò si aggiunge il rapporto affettivo che spesso lega la vittima all’abusante, l’inesauribile speranza di una sua redenzione, di un agognato ritorno alla “normalità” che si teme un’eventuale denuncia potrebbe compromettere definitivamente.
Una famiglia in cui si perpetrano violenze e abusi di vario genere assume, quindi, l’aspetto di un mostro bicefalo difficile da sconfiggere, di un nido rassicurante e, al tempo stesso, irto di rovi.

L’avvocato D’Andria si occupa di maltrattamenti in famiglia con peculiare sensibilità e discrezione, offrendo alle vittime l’ascolto e la comprensione di cui ben sa che hanno bisogno.

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Avvocato penalista Milano Francesco D'andria

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