Spacciatore o assuntore

Il fatto

Il caso che prospettiamo all’attenzione dell’utente è quello di un nostro assistito che aveva già subito una condanna penale a 5 anni di reclusione per traffico internazionale di stupefacenti.

Il signor XXX stava scontando il fine pena in detenzione domiciliare.

Ebbene, durante la notte, – a seguito di una segnalazione di una fonte confidenziale che riferiva la presenza di sostanza stupefacente nell’appartamento del XXX – l’Autorità di Polizia faceva irruzione nell’abitazione del predetto.

Invero, la Polizia rinveniva circa 45 grammi di cocaina e 25 di hascisc.
Il soggetto dichiarava da subito che egli era assuntore abituale di sostanze stupefacenti. Orbene, gli operanti procedevano all’arresto e veniva disposto il processo per direttissima. L’Udienza di convalida.
Si approdava, dunque, all’udienza di convalida.

Per inciso, è da specificare che nell’udienza di convalida, ai sensi dell’art. 391 c.p.p., il Giudice deve decidere in primis che il “fermo” o “l’arresto” siano avvenuti in ottemperanza del dettato di legge; in secundis, deve determinarsi se disporre o meno una misura cautelare nei confronti dell’indagato (ossia misura cautelare in carcere, arresti domiciliari, obbligo di firma, ecc.).

Ebbene, per l’applicazione della misura cautelare, occorre in che vi siano, come stabilisce l’art. 273 c.p.p. a carico dell’indagato, gravi indizi di colpevolezza.

In secondo luogo, che vi siano, ai sensi dell’art. 274 c.p.p., le esigenze cautelari.

In aula l’Ecc.mo Pubblico Ministero riteneva che, nel caso in questione, sussistessero i gravi indizi di colpevolezza e che, di conseguenza, vi fossero le esigenze cautelari in carcere.

Lo scrivente si opponeva a questa decisione adducendo che nel caso di specie X era un normale assuntore di sostanza stupefacente. Tanto è vero che egli era in cura presso il S.E.R.T.

Il dato ponderale (ovvero l’eccessivo quantitativo di sostanza stupefacente rinvenuta) era giustificato dal fatto che la persona, essendo ristretta agli arresti domiciliari, doveva recarsi saltuariamente dallo spacciatore e quindi preferiva compiere un massiccio approvvigionamento.

Ergo, quel quantitativo di sostanza drogante serviva soltanto per un fabbisogno personale.

Infatti, dal fascicolo delle indagini non emergevano elementi idonei a provare che l’X era uno spacciatore e che la droga nell’appartamento fosse destinata allo spaccio.

A ben vedere è proprio questo il discrimine tra condotta lecita ed illecita, ovvero la destinazione allo spaccio della sostanza detenuta.

L’essere in possesso di sostanza drogante, seppure ingente, non può tramutarsi in una prova della finalità allo spaccio della detenzione!

Inoltre, si faceva notare al Giudice della Convalida, che la Polizia non aveva trovato nessuna persona che aveva acquistato droga dall’X, né tanto meno erano stati rinvenuti nell’appartamento bilancini di precisioni, buste per il frazionamento della sostanza, notevoli somme di denaro contante come provento del reato.

Niente di niente.

Ma “il punto forte” risiedeva nel fatto che l’X era già agli arresti domiciliari! Quindi che senso aveva tradurlo in carcere?

Il Giudice, dunque, accoglieva le istanze di questo difensore, atteso che non sussistevano i gravi indizi di colpevolezza e le esigenze cautelari, e, dunque, si determinava, contrariamente alla richiesta del P.M., di concedere gli arresti domiciliari.

Il Processo

Si procedeva a processo per direttissima ove questa difesa chiedeva che l’imputato fosse giudicato mediante rito abbreviato.

Si intende per rito abbreviato che il processo viene discusso sulla base degli atti d’indagine. In tal modo detti atti passano nel fascicolo del Giudice il quale deciderà, appunto, sulla base degli atti.

Mediante la scelta di siffatto rito l’imputato ha diritto, ex lege, ad uno sconto di pena di un terzo in quanto, diciamo volgarmente, ha fatto perdere meno tempo alla giustizia!

Il compito del difensore, dunque, è quello di mettere in luce tutte le lacune delle indagini, tutti gli elementi probatori in favore dell’indagato che si leggono, in filigrana, tra le carte processuali.

Tutto ciò lo si può fare attraverso l’arma della discussione finale.

Ebbene, sul punto, il difensore ha portato all’attenzione del Giudicante l’assunto che non vi era nessun riscontro probatorio che l’imputato fosse uno spacciatore, atteso che non vi era stato nessun soggetto che aveva dichiarato di aver acquistato sostanza drogante dal XXX.

Sotto il profilo giuridico secondo la giurisprudenza di merito e di legittimità il dato ponderale, ovvero il quantitativo di sostanza stupefacente, non può assurgere a parametro univoco volto alla dimostrazione che la detenzione sia finalizzata allo spaccio, ma occorre che il predetto parametro si coniughi con altri parametri, ossia sulle modalità dell’azione.

In altre parole, occorre che sia dimostrato che il quantitativo sia destinato alla vendita.

La Giurisprudenza ritiene che, se così non fosse, e cioè se si tenesse conto soltanto che l’ingente quantitativo di sostanza di per sé sia la prova della vendita, vi sarebbe un inversione dell’onere della prova.

Troviamo conforto nella sentenza della Cassazione del 28 Febbraio 2011 n. 7578 che stabilisce che il superamento del dato ponderale non può determinare, come detto, l’inversione dell’onere della prova. “Ne consegue” dice il S.C. che “la destinazione della sostanza alla vendita o alla cessione, in quanto elemento  costitutivo della fattispecie criminosa, deve comunque essere dimostrata dalla pubblica accusa, non potendo competere all’imputato l’onere di provare che la droga fosse destinata al suo consumo personale”.

 

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Avvocato penalista Milano Francesco D'andria

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