TRAFFICO DI INFLUENZE ILLECITE: qualche informazione sul reato al centro delle inchieste sul caso CONSIP
Il padre dell’ex Presidente del Consiglio dei Ministri, Tiziano Renzi, è al centro di un caso mediatico in quanto, da fonti giornalistiche, risulta essere indagato per traffico di influenze illecite in quanto si sarebbe fatto promettere, insieme all’imprenditore Carlo Russo, somme di denaro da un imprenditore campano, Alfredo Romeo, per favorire quest’ultimo dall’amministratore delegato della CONSIP, Luigi Marroni, nell’assegnazione degli appalti.
Di cosa risponde chi è indagato per traffico di influenze illecite?
Cerchiamo di far chiarezza sul reato di traffico di influenze illecite, che effettivamente è di derivazione sovrannazionale e di attualissima introduzione nel nostro ordinamento e, di conseguenza, poco conosciuto.
Il reato di traffico di influenze illecite è stato introdotto soltanto nel 2012 con la cosiddetta legge Severino, ossia la legge n. 190/2012, in ossequio a quanto disposto dalla Convenzione di Merida, la Convenzione delle Nazioni Unite ratificata in Italia con la legge n. 116/2009 e la Convenzione penale sulla corruzione di Strasburgo del 1999 e ratificata con la legge 110/2012.
Ma vediamo più da vicino la struttura del reato. All’art 346 bis c.p. si legge che è punito con la reclusione da uno a tre anni chiunque sfruttando relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o con un incaricato di un pubblico servizio, indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale, come prezzo della propria mediazione illecita verso il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio ovvero per remunerarlo, in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio.
È chiaro che la norma ha lo scopo di prevenire azioni di corruzione e nello specifico punisce il mediatore ossia colui che crea materialmente il contatto tra un privato e un pubblico ufficiale. Riassumendo al massimo, la ratio dell’art. 346 bis c.p. punisce le condotte prodromiche al compimento del reato di corruzione. L’accordo tra il mediatore e il privato è l’elemento centrale del reato, che si consuma esattamente nel momento in cui viene raggiunto. È bene sottolineare che la norma dell’art 346 bis c.p. è del tutto innovativa nel nostro ordinamento proprio in virtù del fatto che, prima della sua introduzione, il reato di corruzione era incentrato unicamente sul collegamento tra pubblico ufficiale e l’atto pubblico.
Il reato può essere sia a titolo oneroso che a titolo gratuito. Nel primo caso il mediatore si fa dare denaro o prestazioni di natura patrimoniale dal privato al fine di pressare il funzionario amministrativo; nel secondo caso, invece, il mediatore è solo il ponte tra il privato e il funzionario e non ottiene nulla per l’attività.
Per quanto sia di recente formulazione, è assunto agli onori della cronaca un altro scandalo nel quale il reato è stato protagonista: è conosciuto come inchiesta Tempa Rossa e ha portato alle dimissioni dell’allora ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi. Il ministro è stato intercettato mentre parlava con Gianluca Gemelli, suo compagno, dell’accordo con il ministro per le riforme costituzionali, Maria Elena Boschi, sull’approvazione dell’emendamento del decreto sblocca Italia che favoriva gli interessi dell’imprenditore. La vicenda, che era cominciata nel marzo 2016, si è conclusa a gennaio 2017 con la richiesta di archiviazione da parte del pubblico ministero per il Gemelli.
Buona parte della dottrina, primo fra tutti il professor Padovani, critica l’impostazione che è stata data al reato di traffico di influenze illecite per due ordini di ragioni. In primis manca una definizione di mediazione in una norma extrapenale: non vi è un chiarimento di quello che intende la norma con l’espressione relazioni esistenti. Possono essere ricompresi rapporti sporadici o devono necessariamente considerarsi idonei a perfezionare la fattispecie del reato soltanto i rapporti stabili? È evidente che spetterà al giudice penale dimostrare la concretezza di queste relazioni. Ma per fare questo, il giudice deve anche stabilire se un atto di natura amministrativa è lecito o meno, sindacandone quindi il contenuto. Questa deduzione stride con la teoria della separazione dei poteri che è alla base del nostro ordinamento giuridico.