Diritto penale d’impresa: white collar crime

L’espressione “white collar crime” (= crimine del colletto bianco) viene coniata a metà del secolo scorso da uno dei padri della criminologia, Sutherland, per indicare, usando le sue parole, ogni crimine “posto in essere da una persona rispettabile e di elevata condizione sociale nel corso della sua occupazione”.
Si è detto che, se ai tempi di Sutherland (nasce nel 1883 e muore ne 1950) fosse esistito un premio Nobel per la criminologia, egli di sicuro ne sarebbe stato insignito (oggi esiste e viene assegnato in Svezia).
Qual è stata la portata rivoluzionaria dei suoi studi?
Tra gli anni Venti e gli anni Quaranta il criminologo statunitense analizza attentamente l’operato di settanta tra le maggiori società americane (tra cui: Warner Bros, Palmolive, General Motors) e le decisioni pronunciate da corti e commissioni amministrative a carico delle stesse.
Esito della sua ricerca: anche gli appartenenti alle classi alte commettono crimini, e li commettono per le stesse cause che portano alla commissione dei reati comuni, ma il legislatore ha deciso di colpirli con sanzioni diverse, più tenui, e ciò ne determina una scarsa visibilità, ne favorisce/facilita la commissione. Sutherland conia l’espressione “privilegio degli affari” con riferimento al trattamento di
favore degli illeciti commessi dai colletti bianchi, sia a livello regolativo (il mondo economico
è spesso interpellato sulle proposte di incriminazione, i potenziali criminali comuni mai), sia
a livello sanzionatorio (le autorità preferiscono ricorrere a sanzioni civili e amministrative che penali per tali illeciti), sia a livello “reputazionale” (si tratta di illeciti meno pubblicizzati, l’opinione pubblica e i media sono meglio disposti verso di essi, i partner economici continuano a tenere in conto i responsabili, addirittura li considerano “scaltri”, in quanto hanno saputo aggirare quelle regole che sono percepite con insofferenza come lacci, ostacoli alla libera attività economica). Ne consegue, per altro, che i colletti bianchi possano ricorrere a numerose “neutralizzazioni” (strategie cognitive messe in atto dai criminali allo scopo di fronteggiare le conseguenze psicologiche (i sensi di colpa innanzitutto) derivanti dall’aver posto in essere una condotta penalmente rilevante o comunque illecita) e conservare un’immagine molto positiva e non criminale di sé.
Nel 1949 Sutherland si presenta da un editore con un’opera che raccoglie gli esiti dei suoi studi, intitolata appunto White Collar Crime, ma questi si rifiuta di pubblicarla temendo di essere denunciato per diffamazione. Sutherland, infatti, definiva “crimini” fatti per cui all’epoca erano previste sanzioni amministrative, non penali, fatti per cui, al limite, un’apposita commissione aveva adottato “injunctions”, ammonizioni di carattere meramente amministrativo.
L’opera viene così pubblicata in versione censurata. I nomi vengono sostituiti con cifre o sigle, un capitolo intero e parte degli altri vengono eliminati. Solo nel 1983 la casa editrice dell’Università di Yale recupera il testo integrale da un cassetto con l’aiuto della vedova di Sutherland e ne dà pubblicazione. In Italia la stessa viene tradotta nel 1987, e pubblicata da Giuffrè, ottenuta una liberatoria da una casa editrice inglese, per timore di ripercussioni. Sutherland, concentrandosi sulla dannosità sociale degli illeciti commessi dai colletti bianchi, ha di fatto aperto la strada alla loro effettiva incriminazione. Per fare ciò, il criminologo statunitense ha adottato, per la prima volta, una definizione di crimine che prescinde dal dato normativo penalistico. È crimine, ha affermato, quel fatto che è socialmente dannoso e cui segue una reazione dell’ordinamento (non necessariamente di carattere penale).
Osserva Sutherland: una banale appropriazione indebita commessa da un funzionario di banca può produrre un danno maggiore di quelli prodotti dai peggiori gangster dell’epoca di Al Capone.
Inoltre egli documenta specificamente il numero delle morti e delle lesioni dell’incolumità dovute al white collar crime: suicidi di persone rovinate per aver perso tutti i propri risparmi investiti in società fallite, danni da farmaci tossici, da equipaggiamenti dai soldati di scarsa qualità, infortuni sul lavoro per difetto di manutenzione dei macchinari o mancata adozione delle opportune misure di sicurezza. Talvolta si tratta di decessi e danni che emergono a scopo ritardato (si pensi al disastro di Chernobyl).
Ancora il criminologo afferma che i crimini dei colletti bianchi “creano sfiducia, deprimendo la morale pubblica e creando disorganizzazione su larga scala” (proprio un crollo della fiducia è stato alla base della recente crisi economica).
Si osservano, in ultima analisi, meccanismi di causalità circolare: il white collar crime produce circoli viziosi di erosione della fiducia e diffusione dell’illegalità a tutti i livelli sociali. Un sistema giuridico incapace di contrastare la criminalità economica trasmette l’immagine del diritto del più forte.
Da ultimo, la rappresentazione mediatica incide notevolmente sulla percezione dei crimini dei colletti bianchi, portando alla sottovalutazione del crimine economico, mentre sia il rischio di esserne vittima sia i suoi costi sociali sono enormi.

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Avvocato penalista Milano Francesco D'andria

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