Corruzione al Palazzo di Giustizia: è possibile?
Cos’è la Corruzione al Palazzo di Giustizia? Sicuramente molti di voi, alla lettura del suddetto titolo, ricorderanno l’omonimo film del regista Aliprandi del 1974, la cui trama racconta l’ordine dettato dal nuovo Ministro di Grazia e Giustizia che si proceda d’urgenza contro l’industriale Carlo Goja, accusato di corruzione ma questi, avvisato della imminente perquisizione, dà fuoco al magazzino contenente un archivio compromettente.
Un giudice viene allora incaricato dal Consiglio Superiore della Magistratura di frugare al palazzo di Giustizia e mettere in stato d’accusa il presidente dello stesso, che con l’industriale ha avuto ambigue relazioni. Dalle ricerche vengono a galla sconvolgenti notizie che troverebbero materia per l’incriminazione di alte cariche.
Corruzione in atti giudiziari: cos’è?
Risulta quindi necessario collegarci al tema della corruzione in Procura, meglio rubricata come “Corruzione in atti giudiziari”.
Infatti risponde del delitto di corruzione in atti giudiziari (art. 319 ter c.p.) il pubblico ufficiale che commette i fatti indicati negli artt. 318 c.p. (corruzione per l’esercizio della funzione) e 319 c.p. (corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio). In questa ipotesi rileva la natura dell’atto da compiere, che deve essere funzionale ad un procedimento giudiziario, ponendosi come strumento per arrecare un favore o un danno nei confronti di una delle parti di un processo civile, penale o amministrativo.
Secondo la struttura dell’art. 319 ter, per la consumazione del reato è sufficiente che il soggetto attivo si faccia retribuire o accetti la promessa con lo scopo dell’ingiusto giudizio o dell’ingiusta condanna, indipendentemente dalla verificazione di questi obiettivi e persino senza che si verifichi l’omissione o il ritardo o l’atto contrario ai doveri di ufficio che l’agente considerava come mezzo per realizzare il fine illecito.
Si tratta così di un’autonoma fattispecie incriminatrice dovuta all’esigenza di «evitare, in considerazione della particolare gravità delle fattispecie regolate, che i sensibili aggravamenti di pena già oggi previsti possano essere vanificati dal gioco della comparazione delle circostanze» ed inoltre «la specifica figura della corruzione in atti giudiziari è oggetto di autonoma incriminazione in molte legislazioni».
Si è notato che l’elevazione della corruzione in atti giudiziari a figura autonoma tende a sottolineare l’accentuato disvalore dei comportamenti corruttivi commessi nell’esercizio dell’attività giurisdizionale.
Il co. 2 dell’art. 319 ter c.p. prevede poi due circostanze aggravanti per le ipotesi in cui dal fatto derivi l’ingiusta condanna di taluno alla reclusione non superiore a cinque anni ovvero superiore a cinque anni o all’ergastolo: operano solo rispetto ad una ingiusta condanna in un processo penale (e non civile o amministrativo), non necessariamente di un innocente, ma anche quando venga inflitta una pena maggiore di quella meritata . Si ritiene poi che la condanna debba essere passata in giudicato.
Occorre specificare anche che la corruzione in atti giudiziari è un delitto plurioffensivo in quanto determina la lesione non soltanto di quella che è l’imparzialità e il buon andamento, ma anche della correttezza dell’esercizio delle funzioni giudiziarie considerato che «l’interesse alla correttezza dell’esercizio delle funzioni giudiziarie viene compromesso da una decisione inquinata e alterata dal fatto corruttivo» (Cass. pen., 4.5.2006, n. 33435 ).
Ritengo sia fondamentale, per una buona comprensione dell’argomento farvi alcuni esempi riguardanti l’inchiesta su presunte sentenze pilotate nelle commissioni tributarie milanesi in cambio di mazzette, che portò all’arresto di quattro giudici tributari. Al centro dell’indagine vi fu una tangente da 60mila euro divisa in banconote da 500 euro e nascosta all’interno di pacchi natalizi. La presunta corruzione riguardava due sentenze, una della commissione tributaria provinciale, l’altra quella regionale.
Caso simile fu quello relativo ai 14 arresti da parte della Guardia di Finanza di Salerno: tra gli imputati due giudici tributari, uno presidente della IV sezione e l’altro vicepresidente della II sezione, i quali avrebbero intascato tangenti per velocizzare l’esame del ricorso relativamente alle posizioni di sei aziende della provincia.
Le indagini svolte dalle fiamme gialle hanno consentito di riprendere le dazioni di denaro a titolo di corruzione, che tramite i due dipendenti amministrativi venivano consegnate ai due giudici tributari. Gli importi pagati ai due giudici per ottenere le sentenze favorevoli superavano addirittura i 30mila euro. Sono state persino individuate dieci procedure il cui iter è stato condizionato dalla corruzione.
Ma sicuramente il caso più importante degli ultimi anni di corruzione in atti giudiziari è il Caso Squillante. Si tratta di una complessa vicenda giudiziaria riguardante la mancata vendita della SME (comparto agro-alimentare dell’Istituto per la ricostruzione industriale, il cui presidente era Romano Prodi) alla Società Compagnie Industriali Riunite S.p.A di De Benedetti. Tra gli imputati vi fu anche Silvio Berlusconi.
La vicenda SME risale al 1985, quando l’IRI e la Buitoni raggiunsero un’intesa per la vendita del 64,36% del capitale sociale della SME ad un valore di mercato in linea con le perizie disposte dal Ministro Darida. Il valore venne stabilito in 497 miliardi di lire. Una perizia successiva effettuata dal professor Guatri confermò la stima. Tuttavia le perizie private fatte dalla controparte e presentate successivamente durante lo stesso processo, attestarono un valore commerciale della SME pari a 472,6 miliardi. Altre ditte erano interessate alla trattativa: oltre alla cordata Barilla-Ferrero-Fininvest che aveva presentato una offerta di 600 miliardi, vi erano offerte ancora più elevate da parte della Lega delle Cooperative, dell’Unicoop e della Cofima. Accadde poi che fu aperta un’inchiesta giudiziaria dalla Procura di Milano mentre indagava sui conti del finanziere Franco Ambrosio, conosciuto come il «re del grano». I magistrati, risalirono ai conti di Barilla e ne scoprirono uno usato da Barilla per pagare tangenti a DC e PSI.
Da quel conto partirono due bonifici (750 milioni e un miliardo di lire) destinati all’avvocato Attilio Pacifico.
Secondo l’accusa il primo bonifico fu consegnato in parte al giudice Filippo Verde mentre con il secondo bonifico 850 milioni finirono sul conto intestato a Previti, mentre 100 milioni andarono al conto del giudice Squillante.
Il processo SME cominciò il 9 marzo 2000 al Tribunale di Milano dal sospetto che la sentenza di primo grado del 1986 fosse stata comprata attraverso il versamento di tangenti da parte di Silvio Berlusconi , al giudice Filippo Verde, presidente del Tribunale civile di Roma, al giudice Renato Squillante, agli avvocati Cesare Previti e Attilio Pacifico.
Dopo un lungo iter processuale, nel 2006 la Corte di Cassazione stabilì che la Procura di Milano non avrebbe mai dovuto iniziare le indagini annullando le sentenze emesse dal Tribunale e dalla Corte d’Appello di Milano.